Onorevoli Deputati! - L'articolo 1 del presente disegno di legge, attraverso la modifica dei decreti legislativi 26 maggio 2004, n.153 e n.154, adegua la normativa nazionale in materia di pesca ai princìpi comunitari.
      In particolare, con il comma 1 si sostituisce l'articolo 6 del decreto legislativo n. 153 del 2004, al fine di escludere la tolleranza del 10 per cento nella detenzione di esemplari ittici sotto misura, garantendo un'effettiva tutela alle specie per le quali è prevista una taglia minima dalla normativa nazionale, così come disposto dai diversi regolamenti comunitari che non prevedono tale tolleranza per le specie indicate, e si estende la sanzione accessoria della sospensione dell'esercizio commerciale da cinque a dieci giorni, prevista per la commercializzazione di esemplari sotto misura, alla commercializzazione di specie di cui è vietata la cattura (ad esempio datteri).
      Per tale ultima fattispecie, sebbene sicuramente più grave, attualmente non è previsto tale tipo di sanzione accessoria.
      Con il comma 2 si introduce la sanzione per la violazione dell'obbligo di trasmettere i dati statistici delle catture e degli sbarchi, previsto dall'articolo 11 del decreto legislativo n. 154 del 2004 (procedura di infrazione n. 2118 del 2001).
      Articolo 2. L'articolo 2 adegua la legge 14 luglio 1965, n. 963, alla normativa comunitaria.
      In particolare, il comma 1 introduce espressamente il divieto di detenzione di attrezzi non consentiti, previsto da diverse norme comunitarie ma non chiaramente esplicitato nell'ordinamento giuridico nazionale, anche se riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità.
      La Commissione europea ha sempre contestato, in merito al fenomeno delle cosidette «spadare», la mancanza di un idoneo sistema sanzionatorio in linea con la normativa comunitaria e adeguato agli obiettivi della politica comune della pesca.
      Infatti, attualmente la legge n. 963 del 1965 prevede una sanzione amministrativa per la pesca con attrezzi non consentiti, mentre per la violazione delle numerose norme che vietano la detenzione di attrezzi non consentiti bisogna far ricorso all'articolo 2 del regio decreto 4 aprile 1940, n. 1155, che peraltro l'indirizzo giurisprudenziale dominante ritiene implicitamente abrogato per incompatibilità con la disciplina della pesca marittima dettata dalla stessa legge n. 963 del 1965.
      L'inserimento di tale divieto, che trova sanzione nell'articolo 26 della citata legge n. 963 del 1965, sostituito dal comma 2 dell'articolo 2 in oggetto, consentirà di chiudere la procedura di infrazione n. 1992/5006, ai sensi dell'articolo 226 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE), riguardante il controllo delle misure tecniche comunitarie relative alle reti da posta derivanti, oltre a semplificare l'attività di vigilanza e di controllo.
      Il comma 2 (che, come ricordato, sostituisce l'articolo 26 della legge n. 963 del 1965) adegua le sanzioni amministrative in materia di pesca, previste dal citato articolo 26, come sostituito dalla legge n. 381 del 1988, rendendole maggiormente dissuasive, seguendo così le indicazioni della Commissione europea contenute nella sua comunicazione annuale sulle relazioni trasmesse dagli Stati membri relativamente alle infrazioni gravi alle norme della politica comune della pesca commesse nel 2005.

 

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      A tale fine, l'articolo 26 viene sostituito integralmente, introducendo anche le sanzioni amministrative per la violazione delle norme del regolamento (CE) n. 2244/2003 della Commissione, del 18 dicembre 2003, relative al sistema VMS, nonché per la violazione delle norme relative alla tutela di determinate specie ittiche, oggetto di piani di ricostituzione, e per la vendita e la commercializzazione dei prodotti della pesca sportiva o a scopo ricreativo.
      Infine, i commi 3 e 4 modificano l'articolo 27 della citata legge n. 963 del 1965, intervenendo sulle sanzioni accessorie, al fine di rafforzare i divieti.
      Queste disposizioni si rendono necessarie per superare la procedura di infrazione n. 2004/2225 C/2 (relativa al Sistema di controllo satellitare dei pescherecci).
      Articolo 3. Come è noto, con sentenza del 18 luglio 2007, nella causa C-134/05, la Corte di giustizia delle comunità europee, in parziale accoglimento del procedimento di infrazione promosso dalla Commissione europea contro l'Italia, ha ritenuto in contrasto con il Trattato CE e con i princìpi in esso contenuti agli articoli 43 e 49 il fatto di:

          a) «chiedere, benché l'agenzia di recupero dei crediti disponga di una autorizzazione rilasciata dal questore di una provincia, una nuova autorizzazione in ognuna delle altre province ove essa intenda svolgere le sue attività» (limitazione dell'attività in ambito provinciale);

          b) obbligare l'agenzia a «disporre di locali nel territorio oggetto dell'autorizzazione ed affiggervi le prestazioni che possono essere effettuate per i clienti» (obbligo di munirsi di una sede, con il connesso obbligo di affissione delle prestazioni consentite);

          c) obbligare l'agenzia a «disporre di un locale in ogni provincia in cui essa intenda svolgere la sua attività» (obbligo di munirsi di una sede in ogni provincia).

      Essendo quindi opportuno provvedere tempestivamente all'adeguamento del diritto interno, è stata proposta la norma di cui all'articolo 4, che contiene anche procedure alternative di adempimento degli obblighi di informazione del cliente e di esibizione degli atti agli organi di controllo.
      L'intervento normativo proposto non incide sulle disposizioni vigenti in materia di protezione dei dati personali e di prevenzione dei reati, con particolare riguardo alla prevenzione del riciclaggio di capitali di provenienza illecita, che non solo non sono state oggetto di censura da parte della Corte di giustizia, ma sono state adottate, come è noto, in esecuzione di specifiche direttive europee.
      Articolo 4. Nell'ambito della procedura di infrazione n. 2005/2358 la Commissione europea, con parere reso in data 27 giugno 2007, ha ritenuto che l'Italia è venuta meno all'obbligo di recepire correttamente l'articolo 2, paragrafo 3, l'articolo 8, paragrafo 1, e l'articolo 9 della direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica.
      Il presente articolo contiene le norme necessarie per assicurare il pieno recepimento della direttiva, conformemente alle osservazioni formulate dalla Commissione europea nel citato parere, e per giungere così al superamento della relativa procedura di infrazione.
      In particolare, la disposizione, redatta in forma di novella, reca modifiche al decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, che ha recepito la direttiva 2000/43/CE.
      La lettera a), novellando l'articolo 2, comma 3, del citato decreto legislativo, modifica la definizione di molestie, rendendo alternativo - e non più cumulativo - l'uso dei diversi aggettivi volti a qualificarle. In tale modo la definizione del decreto legislativo viene resa conforme a quella della direttiva, con conseguente facilitazione, per la vittima di molestie, a dimostrarne la sussistenza e a ottenere tutela.
      La lettera b) modifica l'articolo 4, comma 1, del decreto legislativo, in modo da precisare che, nei casi di discriminazione

 

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ivi contemplati, le norme procedurali previste dall'articolo 44 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, si applicano solo in quanto compatibili.
      La lettera c) è volta ad eliminare le divergenze tra l'articolo 8 e il considerando n. 21 della direttiva, da un lato, e l'articolo 4, comma 3, del decreto legislativo, dall'altro, in materia di onere della prova. In particolare si modifica l'articolo 4, comma 3, del decreto legislativo, in modo da introdurre in favore del ricorrente una reale inversione dell'onere della prova, prevedendo che, qualora il ricorrente deduca in giudizio elementi di fatto, dai quali si può presumere che vi sia stata discriminazione diretta o indiretta, spetti al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. In caso di discriminazione indiretta, si prevede che gli elementi di fatto possano desumersi anche da dati di carattere statistico.
      La lettera d) introduce il nuovo articolo 4-bis del decreto legislativo, recante una disposizione di tutela da comportamenti, trattamenti o altre conseguenze pregiudizievoli che costituiscano reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento. Tale risultato è raggiunto estendendo anche a tali comportamenti lo speciale procedimento di cui all'articolo 4 del medesimo decreto legislativo. In accoglimento delle osservazioni della Commissione europea, tale forma di tutela è espressamente accordata sia alla persona lesa da una discriminazione diretta o indiretta, sia a «qualunque altra persona» (ad esempio un collega di lavoro o un testimone che abbiano sostenuto la vittima).
      La lettera e) modifica l'articolo 5, commi 1 e 3, del decreto legislativo in modo da precisare che anche le associazioni e gli enti sono legittimati ad agire, ai sensi dell'articolo 4-bis, avverso comportamenti pregiudizievoli che costituiscano reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento.
      Articolo 5. Le modifiche al decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209, recante attuazione della direttiva 2000/53/CE, relativa ai veicoli fuori uso, proposte nel presente articolo si rendono necessarie per dare esecuzione alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 24 maggio 2007 nella causa C-394/05. In tale sentenza la Corte ha statuito il non corretto recepimento degli articoli 3, paragrafo 5, 5, paragrafo 1, e 8, paragrafi 3 e 4, della direttiva ad opera del citato decreto legislativo n. 209 del 2003.
      In particolare, la modifica di cui alla lettera a), volta a introdurre espressamente la previsione dell'obbligo, per gli operatori economici, di istituire, anche per i veicoli a tre ruote, sistemi di raccolta delle parti usate asportate al momento della riparazione di tali veicoli, consentirà di trasporre correttamente l'articolo 3, paragrafo 5, della direttiva.
      Le modifiche di cui alle lettera b) e c) consentiranno, invece, di dare corretto recepimento all'articolo 5, paragrafo 1, della direttiva, in quanto prevedono l'obbligo di istituire, se tecnicamente fattibile, sistemi di raccolta delle parti usate derivanti dalla riparazione dei veicoli, come imposto dalla stessa direttiva.
      La modifica di cui alla lettera d) è, invece, volta a dare corretto recepimento all'articolo 8, paragrafi 3 e 4, della direttiva, che prevede che le informazioni che i produttori di veicoli e dei loro componenti sono tenuti a fornire devono corrispondere a quanto richiesto dagli impianti di trattamento.
      Articolo 6. La norma proposta è volta a superare due procedure di infrazione avviate, fra l'altro, per non corretto recepimento e mancata attuazione dell'articolo 14 della direttiva 1999/31/CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa alle discariche di rifiuti. Tale articolo è stato trasposto nell'ordinamento interno dall'articolo 17 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36.
      In particolare, nella procedura di infrazione n. 2003/2077, la Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza del 27 aprile 2007, ha statuito la mancata
 

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attuazione dell'articolo 14 della direttiva in quanto l'Italia non ha fornito dati certi sulla chiusura delle discariche che non hanno presentato nei termini prescritti il piano di adeguamento o il cui piano è stato respinto.
      Nella procedura di infrazione n. 2003/4506, allo stadio di ricorso alla Corte di giustizia (causa C-442/06), la Commissione europea contesta, fra l'altro, il tardivo recepimento della direttiva che, ai sensi dell'articolo 14, avrebbe dovuto essere trasposta entro il 16 luglio 2001, visto che il decreto legislativo di recepimento è entrato in vigore solo nel marzo 2003. Per effetto di tale ritardo non si è attribuita alle discariche autorizzate fra il 16 luglio 2001 e il 27 marzo 2003 la qualifica di discariche ex novo, che avrebbe comportato l'applicazione della nuova disciplina introdotta dalla direttiva, bensì quella di discariche preesistenti per le quali sono sufficienti la presentazione e l'approvazione di un piano di adeguamento. La Commissione europea contesta, inoltre, la mancata trasposizione di alcune disposizioni dello stesso articolo 14 della direttiva, relative alle discariche per i rifiuti pericolosi, che avrebbero dovuto essere applicate nel 2002 (articoli 4, 5 e 11 della direttiva) e nel 2004 (articolo 6 della direttiva).
      Al fine, dunque, di avviare a soluzione le due predette procedure di infrazione, si rende necessario precisare meglio la portata dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 36 del 2003, introducendo una disciplina specifica (e sostanzialmente differenziata rispetto a quella prevista per tutte le altre discariche) per le discariche autorizzate fra il 16 luglio 2001 e il 27 marzo 2003 e per quelle destinate a rifiuti pericolosi.
      In tale modo si fa venire meno il regime di generale e indistinta equiparazione tra tutte le discariche preesistenti al marzo 2003, contenuto nel decreto legislativo n. 36 del 2003: regime di equiparazione che, secondo le autorità comunitarie, si pone in contrasto con la diversa disciplina che la direttiva 1999/31/CE assegna alle discariche per rifiuti pericolosi e a quelle autorizzate prima della sua entrata in vigore.
      Articolo 7. La Commissione europea, a seguito della sentenza emessa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee il 12 gennaio 2006 per mancato recepimento della direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, ha avviato una seconda procedura, ai sensi dell'articolo 228 del Trattato CE, arrivata allo stadio di parere motivato, in quanto ha ritenuto incompleto il provvedimento adottato per dare esecuzione alla citata sentenza della Corte di giustizia. Secondo la Commissione europea, il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale, nel quale è stata formalmente trasposta la direttiva, non prevede, infatti, disposizioni di recepimento dei paragrafi 4, 5 e 7 dell'articolo 4 della direttiva in questione.
      Al fine di ottemperare alla sentenza della Corte di giustizia si rende, pertanto, necessario modificare l'articolo 77 del decreto legislativo n. 152 del 2006, e, più specificamente, sostituire i commi 6 e 7 e introdurre, dopo il comma 10, un nuovo comma 10-bis.
      Articolo 8. A seguito dell'entrata in vigore, il 31 luglio 2007, delle disposizioni della parte seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, recante norme in materia ambientale, è stato, fra l'altro, abrogato l'atto di indirizzo e coordinamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 3 settembre 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27 dicembre 1999, come modificato dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 7 marzo 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 113 del 17 maggio 2007. L'adozione di quest'ultimo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che prevedeva l'abrogazione delle disposizioni del citato atto di indirizzo e coordinamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 3 settembre 1999 che consentivano di escludere dalla valutazione di impatto ambientale (VIA) gli impianti di recupero sottoposti a procedura semplificata, si era resa necessaria per dare esecuzione
 

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alla sentenza emessa il 26 novembre 2006 dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nell'ambito della procedura di infrazione n. 2000/5083.
      Poiché il citato decreto legislativo n. 152 del 2006 riproduce, ai punti 9.a) e 9.b) dell'elenco A dell'allegato III alla parte seconda, le disposizioni abrogate dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 7 marzo 2007, è necessario e urgente, al fine di evitare l'avvio di una seconda procedura di infrazione ai sensi dell'articolo 228 del Trattato CE, procedere all'abrogazione delle norme del decreto legislativo n. 152 del 2006 che reintroducono disposizioni che la Corte di giustizia ha dichiarato non conformi al diritto comunitario.
      L'articolo 9 è diretto a superare la procedura di infrazione relativa alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio.
      Nel marzo 2007 il Collegio dei Commissari infatti ha deciso di ricorrere alla Corte di giustizia delle Comunità europee per far riconoscere il mancato adempimento, da parte dell'Italia, degli obblighi imposti dalla direttiva 79/409/CE del Consiglio, del 2 aprile 1979, non avendo quest'ultima posto in essere misure adeguate a superare le censure formulate dalla Commissione europea nel parere motivato adottato il 28 giugno 2006 nell'ambito della procedura di infrazione n. 2006/2131.
      Al fine di chiudere il contenzioso comunitario e scongiurare la proposizione del ricorso si rende necessario apportare alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, le modifiche necessarie a dare corretto recepimento alla citata direttiva 79/409/CE.
      La Commissione europea, nel parere motivato del luglio 2006, infatti, fra l'altro, contesta:

          a) al punto 5, il mancato recepimento dell'articolo 2 della direttiva, inadempimento al quale si intende ovviare con la modifica contenuta nel comma 1, lettera a), del presente articolo, che riproduce fedelmente l'articolo 2 della direttiva;

          b) al punto 13, il non corretto recepimento dell'articolo 5 della direttiva, in quanto né l'articolo 2, né l'articolo 21 della legge n. 157 del 1992 prevedono espressamente il divieto di distruzione e danneggiamento deliberato dei nidi e delle uova e il divieto di disturbare deliberatamente le specie di uccelli protette. La modifica prevista al comma 1, lettera e), consentirà di superare tale censura;

          c) al punto 15, il non corretto recepimento dell'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva, non essendo stato espressamente previsto nella normativa nazionale il divieto di trasporto per la vendita. La modifica introdotta al comma 1, lettera f), è volta a porre rimedio a tale inadempimento;

          d) al punto 17, la non corretta trasposizione dell'articolo 7, paragrafo 4, della direttiva, in quanto l'articolo 18 della legge n. 157 del 1992, che suddivide le specie cacciabili per periodi di attività venatoria, non prevede espressamente che tale suddivisione temporale, pur ispirata a queste finalità, rispetti il divieto di caccia durante il periodo della nidificazione o durante le fasi della riproduzione e della dipendenza, ovvero, per quanto concerne le specie migratrici, durante il periodo della riproduzione e durante il ritorno al luogo di nidificazione. La modifica al comma 2 dell'articolo 18 della legge n. 157 del 1992, prevista al comma 1, lettera c), del presente articolo, recuperando formalmente tali concetti, consentirà di superare il rilievo della Commissione europea, in quanto prevede che i termini stabiliti al comma 1 dell'articolo 18, ai fini dell'esercizio venatorio, potranno essere modificati anche al fine di garantire la tutela delle specie nel periodo di nidificazione e durante le fasi di riproduzione e di dipendenza e, nei confronti delle specie migratrici, durante il periodo di riproduzione e durante il ritorno al luogo di nidificazione;

          e) al punto 18, il mancato recepimento dell'articolo 10, paragrafo 2, della direttiva, che impone agli Stati membri l'obbligo di trasmettere alla Commissione

 

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europea tutte le informazioni a questa utili al fine di coordinare le ricerche e i lavori riguardanti la protezione, la gestione e la utilizzazione della fauna selvatica, nonché quelle sull'applicazione pratica della legge. La modifica proposta al comma 1, lettera b), del presente articolo consentirà di superare la censura della Commissione;

          f) al punto 21, la non completa trasposizione dell'articolo 11 della direttiva, in quanto l'articolo 20 della legge n. 157 del 1992, che ne costituisce il recepimento, non prevede espressamente che la Commissione europea sia preventivamente consultata nel caso di introduzioni di specie di uccelli che non vivono naturalmente allo stato selvatico. La modifica prevista al comma 1, lettera d), consentirà di superare la censura della Commissione.

      Articolo 10. La disposizione ha lo scopo di conformare l'ordinamento italiano all'orientamento degli organi comunitari formatosi sull'interpretazione dell'articolo 39 del Trattato CE.
      Considerato che anche recentemente nei confronti dello Stato italiano sono state pronunciate alcune decisioni della Corte di giustizia delle Comunità europee che hanno accertato l'inadempimento agli obblighi derivanti dal citato Trattato e dal regolamento (CEE) n. 1612/68 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, per il riconoscimento dell'esperienza professionale e dell'anzianità maturata presso altri Paesi membri dell'Unione europea (Corte di giustizia delle Comunità europee 26 ottobre 2006, causa C-371/04; Corte di giustizia delle Comunità europee 12 maggio 2005, causa C-278/03), si rende necessario introdurre una previsione normativa espressa che sancisca la parità di trattamento per i casi in cui un cittadino comunitario abbia svolto, al di fuori del nostro territorio nazionale, un'attività lavorativa analoga a quella considerata e valutata dalle pubbliche amministrazioni italiane. In sostanza, mediante la disposizione in oggetto si vuole dare attuazione - oltre che all'orientamento della giurisprudenza della Corte di giustizia - al contenuto della comunicazione della Commissione COM (2002) 694 «Libera circolazione dei lavoratori - realizzarne pienamente i vantaggi e le potenzialità». L'introduzione della disposizione in questione, infatti, determina che, laddove l'amministrazione italiana richieda, quale requisito per lo svolgimento di un determinato servizio o incarico, che siano possedute determinate esperienze professionali e anzianità, queste ultime sono riconosciute secondo condizioni di parità a prescindere dal Paese europeo ove le stesse sono state maturate, senza creare alcuna discriminazione. In attuazione del principio formulato dalla Corte di giustizia (ex multis, sentenza C-290/00, Duchon, 18 aprile 2002), viene altresì considerato valutabile il servizio prestato presso le amministrazioni pubbliche degli Stati membri in periodi antecedenti alla loro adesione all'Unione europea.
      La disposizione introduce una norma di carattere generale che non comporta oneri poiché è ricognitiva di obblighi già esistenti per l'ordinamento italiano e quindi per le pubbliche amministrazioni, stante l'efficacia diretta delle disposizioni contenute nel Trattato CE e nel citato regolamento (CEE) n. 1612/68. Per completezza si segnala il generale obbligo di applicare il diritto comunitario anche da parte delle autorità amministrative con disapplicazione del diritto interno eventualmente contrastante, potere/dovere di disapplicazione ormai riconosciuto dall'orientamento consolidato della giurisprudenza (Corte costituzionale, n. 389 del 1989; Corte costituzionale n. 170 del 1984; Corte di giustizia delle Comunità europee causa C-106/77, sentenza 9 marzo 1978; Consiglio di Stato, IV, n. 5194; Consiglio di Stato, VI, n. 430 del 2001).
      Viene fatto salvo l'articolo 38 del decreto legislativo n. 165 del 2001, il quale, in aderenza alla normativa comunitaria, già prevede l'accesso dei cittadini comunitari nelle pubbliche amministrazioni, con le limitazioni ivi previste.

      Articolo 11. L'articolo 11 è volto a porre rimedio ad alcuni rilievi sollevati

 

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nell'ambito della procedura di infrazione n. 2006/2441 dalla Commissione europea per mancata conformità del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, alla direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000. Tali rilievi concernono, in particolare, i seguenti profili della direttiva medesima:

          a) la vessazione a danno del lavoratore. La Commissione europea ha segnalato che con il decreto legislativo de quo non è stata recepita la norma di cui all'articolo 11 della direttiva concernente la tutela dei lavoratori soggetti ad atti o comportamenti discriminatori da parte del datore di lavoro per aver effettuato un reclamo all'interno dell'azienda o avviato un'azione legale - ovvero per aver sostenuto la posizione di un collega che abbia agito per tale via - ritenendosi lesi dal datore di lavoro medesimo. Il rilievo è fondato. Con la nuova proposta, che introduce l'articolo 4-bis (Protezione delle vittime), si estende anche a tali ultimi comportamenti lo speciale procedimento di cui all'articolo 4 del decreto legislativo n. 216 del 2003. L'inserimento è parallelo a quello già visto sub articolo 4, con riferimento al decreto legislativo n. 215 del 2003;

          b) i requisiti essenziali e determinanti per lo svolgimento dell'attività lavorativa. Sul punto si è ritenuto condivisibile quanto segnalato in relazione alla carenza di un riferimento al requisito del «legittimo obiettivo» nell'articolo 3, comma 3, del decreto legislativo in relazione al disposto di cui all'articolo 4, paragrafo 1, della direttiva. Ciò posto, appare opportuno provvedere alla modifica della norma interna richiamata inserendo detto riferimento testuale accanto al rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza. Si è altresì ritenuto condivisibile quanto osservato dalla Commissione europea in merito alla mancata conformità del disposto di cui all'articolo 3, comma 3, ultimo periodo, del decreto legislativo a quello di cui all'articolo 3, paragrafo 4, della direttiva. Invero, detta norma comunitaria circoscrive il campo delle possibili discriminazioni, sotto il profilo soggettivo, ai soli fattori connessi all'età e alla sussistenza di eventuali handicap, sotto l'aspetto oggettivo, unicamente all'esercizio delle attività svolte dalle Forze armate. Una tale disposizione è peraltro già contemplata nell'articolo 3, comma 2, lettera e), del decreto legislativo, e dunque sembra necessario eliminare il citato ultimo periodo dell'articolo 3, comma 3, del decreto medesimo. Si è infine convenuto sull'opportunità di modificare l'articolo 3, comma 4, del decreto legislativo precisando esplicitamente, in ossequio a quanto previsto dall'articolo 4, paragrafo 1, della direttiva, che le disposizioni che prevedono accertamenti di idoneità psicofisica ad uno specifico lavoro e quelle che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati per adolescenti, giovani, anziani e lavoratori con persone a carico in relazione alla natura del rapporto di lavoro e alle legittime finalità di politica e mercato del lavoro e di formazione professionale possono essere adottate soltanto nel rispetto del principio per cui tali caratteristiche oggettive o soggettive costituiscano un «requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché la finalità sia legittima ed il requisito proporzionato»;

          c) la giustificazione delle disparità di trattamento collegate all'età. È condivisibile sul punto quanto rilevato dalla Commissione europea in merito alla mancata conformità del citato articolo 3, comma 4, del decreto legislativo in raffronto al disposto di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva. Si ritiene in particolare necessario integrare ulteriormente tale disposizione esplicitando testualmente che eventuali disparità di trattamento connesse all'età possono non essere configurate come discriminazione soltanto «laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate da una finalità legittima e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari»;

 

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          d) la legittimazione ad agire in nome e per conto del lavoratore discriminato. È fondato quanto segnalato dalla Commissione europea in relazione all'incompatibilità dell'articolo 5, comma 1, del decreto legislativo con l'articolo 9, paragrafo 2, della direttiva. Si ritiene conseguentemente necessario modificare anche la citata disposizione del decreto legislativo stabilendo che sono legittimate ad agire, in nome e per conto del lavoratore discriminato, nei confronti della persona fisica o giuridica cui è imputabile il comportamento o l'atto discriminatorio, tutte le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell'interesse leso dal datore di lavoro, purché munite di delega rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata. Tali soggetti saranno altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato i soggetti lesi dalla condotta discriminatoria;

          e) l'onere della prova. È, inoltre, condivisibile il rilievo della Commissione europea concernente la mancata conformità tra la disposizione di cui all'articolo 4, comma 4, del decreto legislativo e quanto stabilito dall'articolo 10, paragrafo 1, della direttiva. L'onere a carico del lavoratore di dedurre in giudizio elementi di fatto in termini gravi, precisi e concordanti non appare infatti aderente alla distribuzione degli oneri probatori fissata dalla direttiva. Si ritiene, dunque, necessario sostituire la richiamata norma interna con altra norma alla cui stregua, quando il lavoratore ricorrente deduca in giudizio elementi di fatto dai quali si possa presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, spetti al datore di lavoro convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione.

      Articolo 12. Le modifiche proposte sono finalizzate a porre rimedio ad alcune delle censure sollevate dalla Commissione europea per la mancata conformità del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, alla direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, come modificata dalla direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002. Gli ulteriori rilievi contenuti nella lettera di messa in mora che ha dato avvio alla procedura di infrazione n. 2006/2535, in ordine ai quali si è provveduto a fornire osservazioni alla Commissione europea, non si ritengono condivisibili. Le censure accolte ineriscono, in particolare, ai seguenti aspetti della direttiva medesima:

          a) la legittimazione ad agire in nome e per conto del lavoratore discriminato. Si ritiene condivisibile quanto segnalato dalla Commissione europea in relazione all'incompatibilità dell'articolo 38 del citato codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, con l'articolo 6, della citata direttiva 76/207/CEE. Si ritiene conseguentemente necessario modificare la citata disposizione del codice stabilendo che sono legittimate ad agire, in nome e per conto del lavoratore discriminato, nei confronti della persona fisica o giuridica cui è imputabile il comportamento o l'atto discriminatorio, tutte le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell'interesse leso dal datore di lavoro, purché munite di delega rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata. Tali soggetti saranno altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato i soggetti lesi dalla condotta discriminatoria;

          b) la tutela contro l'ordine di discriminare. È fondata la censura della Commissione europea concernente la mancata conformità dell'articolo 25, comma 1, del citato codice al disposto di cui all'articolo 2 della direttiva 76/207/CEE. La modifica è dunque volta a integrare la predetta norma interna prevedendo espressamente che costituisce discriminazione diretta anche l'ordine di discriminare, ossia l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i

 

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lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.

      Articolo 13. Nell'ambito della procedura di infrazione n. 2006/2535 la Commissione europea, con parere reso in data 21 marzo 2007, ha ritenuto che l'Italia è venuta meno all'obbligo di recepire correttamente l'articolo 2 della citata direttiva 76/207/CEE, come sostituito dall'articolo 1, numero 2), della citata direttiva 2002/73/CE.

      Tale disposizione prevede espressamente che per le lavoratrici, che rientrano dal congedo per maternità, e per i lavoratori e le lavoratrici, che rientrano dai congedi di paternità o di adozione, vi sia il diritto di beneficiare di qualsiasi miglioramento delle condizioni di lavoro di cui essi avrebbero beneficiato se fossero stati in funzione durante il periodo di assenza.
      La norma in esame intende dare corretta attuazione alla citata disposizione comunitaria, adeguando il dettato dell'articolo 56, comma 1, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, con la previsione che le lavoratrici, al rientro dal congedo di maternità, abbiano diritto di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro, previsti dai contratti collettivi ovvero in via legislativa o regolamentare, che sarebbero loro spettati durante l'assenza.
      L'estensione di questa novella ai casi di congedo di paternità e ai casi di adozione e affidamento non richiede ulteriori interventi, stanti i rinvii contenuti rispettivamente ai commi 2 e 4 del medesimo articolo 56.
      Si precisa che l'esclusione dall'ambito di operatività della norma dei miglioramenti che presuppongono un'effettiva prestazione lavorativa da parte dell'interessata ha lo scopo di evitare discriminazioni in danno delle lavoratrici che siano rimaste in servizio e che abbiano conseguito quei miglioramenti sulla base di una prestazione lavorativa effettiva.
      Dalla norma non risultano discendere nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, in quanto fissa una norma di principio la cui attuazione è demandata alla fonte contrattuale, legislativa o regolamentare.